Il divorzio breve è legge.
Il tempo di attesa tra separazione e divorzio, secondo la primitiva previsione di 5 anni, poi di 3, diviene ora di mesi: 6 in caso di separazione consensuale e 12 in caso di separazione giudiziale, dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del Tribunale.
Presupposto è che la decisione sullo status sia divenuta definitiva (con omologa della separazione consensuale o passaggio in giudicato della sentenza sullo status).
La domanda sociale proviene dalle famiglie ricostituite, costrette ad attendere il triennio per lo scioglimento del precedente matrimonio e, quindi, di poter formalizzare la propria scelta; va quindi a tutelare posizioni giuridicamente fragili, tali per una scelta normativa fondata su una visione della separazione rivelatasi, alla prova dei fatti, non rispondente alla realtà.
La separazione personale è difatti un primo passo del percorso usualmente irreversibile di disgregazione della coppia coniugale sicché, di fatto, dalla separazione non si torna indietro e il triennio come spatium deliberandi prima di compiere la scelta definitiva con il divorzio si è rivelata illusoria e inutile. Sempre più frequentemente, inoltre, si perviene alla separazione quando la convivenza è già cessata, da mesi se non da anni, vi sono ormai nuove unioni in attesa per poter accedere al matrimonio.
Un’operazione legislativa insomma che, prendendo atto della situazione, consente alle formazioni familiari ricostituite di accelerare la propria definizione coniugale. Tuttavia proprio la brevità del termine rende ancora più incomprensibile la rinnovata scelta legislativa di confermare comunque la necessità di separazione prima del divorzio. Se tale scelta aveva un senso nella prospettiva di prevedere una sosta di riflessione prima di sciogliere il matrimonio o farne cessare gli effetti civili, ora il semestre o l’anno tra un’azione e l’altra risultano inutili. Il necessario doppio passaggio (prima separazione e poi divorzio) confermato dal legislatore in un così breve lasso di tempo, affaticano la giustizia, manca l’obiettivo della deflazione (pure perseguito con altri strumenti dal legislatore), onera le parti di una doppia spesa, senza benefici sul piano della riflessione, né per loro né per l’eventuale prole.
Ma l’ipotesi di procedere direttamente al divorzio non è passata. La scelta attuale appare, dunque, una soluzione di compromesso.
Altra innovazione importante sul piano tecnico e su quello sociale della snellezza e chiarezza dei rapporti è aver anticipato la cessazione del regime di comunione legale tra i coniugi al momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati nella separazione giudiziale ovvero alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi davanti al presidente, purché omologato. Difatti, nell’immaginario collettivo di molti, quello è il momento in cui la separazione diviene operativa a tutti i livelli. Invece la comunione dei beni, ai sensi del vecchio articolo 191 del Cc, sopravviveva fino a sentenza di separazione, con immaginabili problemi: acquisti ingenuamente effettuati subito dopo l’udienza presidenziale e relativi provvedimenti da un coniuge che presupponeva di non essere più in comunione dei beni, ricadevano invece in tale regime.
Si tratta quindi di un’operazione per riportare la norma al sentire comune che considera la comunione (materiale e spirituale e conseguentemente patrimoniale), terminata con la comparizione dei coniugi davanti al presidente.
Il tutto si applica anche ai procedimenti in corso.
Si tratta quindi di una mini-riforma non epocale che prende atto e registra il fenomeno crescente dell’incremento statistico delle crisi coniugali, della mobilità in permanente divenire delle costellazioni familiari, della necessità di adeguare gli strumenti normativi al quadro sociologico mutato che vede la famiglia coniugale unica e destinata a perdurare per tutta l’esistenza dei protagonisti come fenomeno tendenzialmente residuale cui si stanno sostituendo più formazioni familiari per soggetto e per esistenza, il cui succedersi e coesistere deve essere disciplinato.
Nelle separazioni giudiziali:
è ridotta da tre anni a 12 mesi della durata minima del periodo di separazione ininterrotta dei coniugi che legittima la domanda di divorzio; il termine decorre dalla comparsa dei coniugi davanti al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale.
Nelle separazioni consensuali:
taglio a sei mesi del periodo di separazione ininterrotta dei coniugi che permette la proposizione della domanda di divorzio; estensione del termine breve anche alle separazioni che, inizialmente contenziose, si trasformano in consensuali; decorso del termine anche in questo caso dalla comparsa dei coniugi davanti al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale.
RIASSUMENDO
Ecco le principali modifiche:
- nelle separazioni giudiziali, è stata ridotta da tre anni a dodici mesi la durata minima del periodo di separazione ininterrotta dei coniugi;
- nelle separazioni consensuali: – ridotta a sei mesi la durata del periodo di separazione ininterrotta dei coniugi; – questo termine vale anche per le separazioni che, inizialmente contenziose, si trasformano in consensuali; – tale termine decorre dalla comparsa dei coniugi davanti al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale.
- lo scioglimento della comunione legale: – nella separazione giudiziale, avviene al momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati; – nella separazione consensuale, alla data di sottoscrizione del verbale di separazione omologato.
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